Il romanzo di Matilda

Il primo romanzo storico che ripercorre la vita della Grancontessa Matilde di Canossa.

La vita, i lutti, gli amori, le lotte, la caduta, il riscatto, le violenze e le passioni della Grancontessa Matilde di Canossa, un romanzo storico che ricostruisce gli eventi fondamentali della sua vita attraverso l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia, cercando di restituire tutta la potenza al personaggio a 900 anni dalla sua scomparsa. In uscita a luglio 2015.

venerdì 17 aprile 2015

In cammino con Matilde

A breve, si parlerà del progetto In cammino con Matilde.
Nel frattempo, godetevi il video.



mercoledì 15 aprile 2015

Eugenio Riversi e Matilde di Canossa

Eugenio Riversi, laureatosi a Bologna con il Professor Glauco Maria Cantarella, si è perfezionato con un dottorato di ricerca presso l’Università di Pisa sotto la guida del Professor Mauro Ronzani. È stato borsista dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici “Benedetto Croce” e dell’Istituto Storico Germanico di Roma. È attualmente docente incaricato all’Istituto di Storia dell’Università di Bonn, dove da tre anni svolge attività di ricerca presso la cattedra del Professor Matthias Becher. Ha già pubblicato il volume La memoria di Canossa (Pisa 2013). A ottobre 2014 è uscito un nuovo saggio di Riversi sulla figura di Matilde di Canossa, pubblicato dalla Odoya Edizioni di Bologna. Ne parliamo con l'autore in questa intervista.

1) Nel suo saggio su Matilde di Canossa si parla di “decostruzione” del personaggio di Matilde: vista l’aura mitica che avvolge il personaggio, quale processo di ricerca ha seguito per cercare il nucleo, o i nuclei, di Matilde?

L’impostazione data alle mie ricerche, condotte negli scorsi anni principalmente sulla più importante fonte narrativa riguardante la contessa – la Vita Mathildis di Donizone – si basa sulla contestualizzazione delle testimonianze al fine di metterne in evidenza il più possibile l’alterità, cioè la diversità dei significati che esse veicolano rispetto al nostro universo di senso.
Si tratta da un lato di un’operazione assolutamente necessaria per lo storico; ma dall’altro – quando praticata riflessivamente – di un esercizio di consapevolezza interpretativa che si affina con la frequentazione delle teorie che la critica letteraria, l’antropologia, la sociologia, la filosofia hanno elaborato negli ultimi cinquanta, sessant’anni. Il confronto dei ricercatori con queste teorie ha comportato una svolta nella storiografia che ha condotto all’affermazione di un nuovo paradigma, quello della storia culturale.
Il riconoscimento dell’alterità attraverso la contestualizzazione favorisce una comprensione più ricca del senso di un’esperienza storica. E impedisce dunque l’appiattimento su identità semplificate come quelle che vengono prodotte ad esempio da processi di mitizzazione, che oggi peraltro si potenziano enormemente con i meccanismi della comunicazione mediatica e pubblicitaria. c’è il rischio – per ora lontano – della riduzione di Matilde ad un logo, come Hello Kitty.
Dunque le mitizzazioni di Matilde, che sono peraltro una realtà storica secolare giustamente meritevole di attenti studi, producono costantemente immagini semplificate: pia ‘paladina’ della riforma, ‘guerriera’, fondatrice di chiese o dell’Università di Bologna. Queste immagini, che riducono la complessità della sua figura storica, finiscono per mettere in ombra altri significati presenti nelle fonti, significati che magari al tempo erano più rilevanti. Ad esempio quelli delle pratiche liturgico-commemorative; oppure i valori della nobiltà guerriera cui Matilde come erede di una dinastia principesca apparteneva (i quali, essendo molto ‘maschili’, creavano per lei situazioni contraddittorie); oppure ancora il dissidio, nella ricca religiosità del tempo, tra vita attiva e contemplativa. Ad esempio, nel caso di Matilde, questo dissidio si concretizzò nella tensione tra la probabile propensione della contessa ad un modo di vita religioso o semireligioso, che avrebbe preso magari forme di tipo monastico, e l’elaborazione di una singolare concezione dell’impegno cristiano nei testi scritti per lei dagli uomini del suo stesso entourage. Una concezione caratterizzata tra l’altro dalla giustificazione della guerra intesa come forma di carità, in senso di ‘amore cristiano’. Matilde, la ‘quasi’ santa figlia di Pietro, la sposa di Cristo del Cantico dei Cantici è anche colei che secondo un’immagine del Vecchio Testamento ‘monda lieta le mani’ nel sangue dei suoi nemici. Ce lo dice un uomo di raffinata cultura che scrisse per lei, il vescovo di Lucca, Rangerio. E quest’ultimo aspetto è in linea con il contesto di allora in cui, come hanno mostrato storici del calibro di Jean Flori e Gerd Althoff, si stava costruendo un discorso sulla ‘guerra santa’, in particolare da parte dei papi riformatori e dei loro sostenitori.
Dunque, decostruire Matilde significa innanzi tutto mostrare, attraverso la contestualizzazione delle fonti che ci danno informazioni su di lei, la complessità del suo profilo senza cedere alla seduzione di immagini mitiche. Significa poi anche mostrare che queste fonti, quelle narrative/letterarie, ma anche quelle documentarie, sono rappresentazioni, cioè costruzioni, che hanno certo una coerenza, ma anche incongruenze o tensioni che possono essere proficuamente sollecitate. Queste incongruenze, che sono un punto di accesso privilegiato per comprendere i testi con cui abbiamo a che fare, erano generate tra l’altro proprio dalla complessità dell’identità e della posizione di Matilde. Una ‘realtà’ con cui gli specialisti della scrittura e del sapere del tempo  dovevano fare i conti per essere credibili.
Per compiere questa operazione ho quindi utilizzato come uno dei possibili reagenti a disposizione dello storico di oggi, cioè una teoria spiccatamente costruttivista, quella di ‘genere’ (con le relative categorie di identità e ruolo): così ho decostruito le costruzioni – chiedo scusa per il bisticcio – della sua figura. E al contempo si sono generati i nuclei tematici della biografia. Ma ovviamente tante altre impostazioni sono possibili.
Infine, vorrei accennare ad un terzo aspetto decostruttivo, più attualizzante, che si riavvicina alla modalità del mito.  La figura di Matilde è così evocativa che si presta ad un trattamento più verticale della sua tradizione, più decontestualizzante, proprio di un approccio artistico, letterario, filosofico e non storiografico. Ho riflettuto su questo aspetto insieme al mio amico Takeo Watanabe – un maestro delle immagini per sensibilità e consapevolezza, con cui da anni collaboro in un blog – e ne è scaturita la copertina del libro. Le tensioni e contraddizioni che risultano da un’analisi storico delle fonti letterarie sono lì  riproposte condensate in un’immagine artistica ‘attuale’, che ha un’altra retorica e un’altra forma di riferimento alla realtà rispetto al testo che segue.
Ma invito anche, per capire il movimento di pensiero che si è compiuto con il tentativo di decostruire Matilde a confrontare l’immagine della contessa di George Sullivan presente a p. 17 con quella di una generica principessa in trono realizzata da Réné Magritte, riprodotta a p. 27. Quest’ultima è un’eloquente intuizione filosofica, espressa per immagini, della decostruzione.

2) Come si concilia la scientificità e il rigore dello storico con la tentazione del “riempire i vuoti” umani ed emotivi di una figura come quella di Matilde?

Da una parte, riannodandosi quanto appena detto, le due cose non si conciliano. Lo storico sviluppa in principio una modalità di ricostruzione della realtà, basata sul riferimento ad altri testi o testimonianze, le fonti, come portatrici di informazioni che sono di volta in volta considerate tracce autorevoli e vincolanti di un’esistenza ‘passata’.  La dimensione specificamente emotiva, specie per periodi più antichi, ma non solo per quelli, è difficilmente registrata, iscritta com’è in primo luogo nell’essere psico-fisico degli attori che interagiscono con una situazione, con un’atmosfera. Solo un racconto ex-post può raccogliere questa dimensione, ma comprensibilmente, in maniera mediata.
In quest’ultimo caso è però possibile considerare le emozioni, nella loro comunicabilità, come parte del sistema culturale: esiste una addirittura una loro retorica. Ad esempio un ruolo rilevante nel comportamento sociale delle élite medievali, religiose e non, ha la manifestazione delle lacrime, che antropologicamente sono un segnale delle emozioni in determinate situazioni. Esso viene registrato da fonti medievali perché possiede valori sociali riconosciuti: ad esempio può avere una funzione nelle “regole del gioco” della mediazione politica.
Leggiamo ancora nell'opera principale del già citato Rangerio, che a Matilde è attribuito un pianto per la mediazione del perdono di Enrico IV a Canossa, un pianto che sarebbe stato superiore a quello di una donna. Non sappiamo in realtà se Matilde abbia veramente pianto, ma sappiamo che gli sono attribuite lacrime secondo un comportamento proprio delle donne mediatrici; tuttavia questa registrazione si accompagna ad una rappresentazione che sembra far supporre un giudizio negativo di questa manifestazione di Matilde. La ‘virile’, ‘amazzonica’ contessa – così in altri passi dello stesso Rangerio – è stata troppo indulgente in quel caso: è probabile un modo per dire indirettamente che la destinataria dell’opera ha fatto un’errata valutazione politica in quel frangente (così pensava l’autore alla fine degli anni ’90 del sec. XI). Che poi Matilde fosse stata in quella situazione commossa, compassionevole, impressionabile, che abbia assolto ai doveri di una ritualità politico-sociale o addirittura finto non lo sappiamo. Matilde o la sua confidente non l’hanno scritto da nessuna parte, nessun cameraman l’ha ripresa; e anche nel caso che queste evenienze si fossero date, non avremmo certezza piena su emozioni e stati interiori.
 Per quanto riguarda la dimensione più ampiamente ‘umana’ la situazione dello storico è ugualmente difficile. Con questa dimensione mi permetto di intendere l’appropriazione del senso delle esperienze di vita da parte di Matilde. Ecco non abbiamo fonti adeguate per comprendere come Matilde abbia interpretato certe azioni e situazioni in cui si trovò e come abbia fatto propri i significati religiosi oppure l’invito ad una ‘carità bellicosa’: respingeva la violenza? Era una sanguinaria? Oppure il suo atteggiamento vero l’uso della violenza era ancora diverso, immersa com'era in una società di maschi guerrieri? Sappiamo che durante la guerra che la vide coinvolta contro Enrico IV gli uomini di cultura che scrissero per lei la dipinsero preferibilmente con tratti veterotestamentari e più ‘marziali’; Donizone che parla in un contesto più tardo, la raffigura più neotestamentaria.
Tuttavia, proprio nelle singolarità o nelle fratture di simili rappresentazioni della contessa, presenti in queste fonti, troviamo uno spiraglio. Questi scrittori dovevano fare i conti con un ‘consenso’ di Matilde, committente o destinataria dei testi. La contessa poteva non essere d’accordo con i loro punti di vista, se si fossero troppo allontanati dal suo punto di vista. In questa fuga prospettica possiamo intravedere qualcosa della dimensione personale di Matilde, cioè di una sua possibile appropriazione di significati. Ma sono briciole.
Certamente l’esempio più rilevante è però quello del celebre motto: ‘Matilde, per grazia di Dio, se è qualcosa’. La continuità con cui dal 1077 fino alla morte fu usato nei suoi documenti, fa pensare ad un riconoscersi della contessa in quella formula. Tuttavia, quel che può far lo storico è sfogliare gli strati di significati scritturistici, diplomatistici e politici racchiusi in quella parola, ma non attingere a quella componente esistenziale che dovette esserci. Che ci fu, lo si può probabilmente supporre proprio dalla continuità dell’uso.
Per ritornare comunque al concetto iniziale, mi piace menzionare come esempio di quello che uno storico a partire delle fonti non può e non deve fare, ma che invece il letterato può fare, un’opera letteraria contemporanea, le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. In questo straordinario romanzo biografico vediamo proprio come la trama delle informazioni delle fonti sull'imperatore romano Adriano sia stata integrata dalla rappresentazione delle emozioni dell’individuo, nella loro dimensione anche corporea, e dal senso della vita, come appropriazione delle esperienze, come ricordi. Quel senso è invece perduto per lo storico: è impossibile sapere cosa Matilde, gravemente malata, provasse nel suo ultimo trasferimento da Bondeno a San Benedetto Polirone, pochi mesi prima di morire. Quale folla di ricordi l’ha imprigionata? O giaceva nel trasporto in stati di non piena coscienza?

3) La figura della Grancontessa sembra quasi più celebre e conosciuta all’estero che in Italia: secondo lei quale può essere la motivazione sottesa?

Non credo che sia proprio così. Penso che Matilde di Canossa sia molto conosciuta in Italia, e credo più che in altri paesi.
La contessa, in quanto si tratta di una sorta di ‘figura del ricordo’ (Ian Assmann), appartiene a tutta la memoria culturale occidentale perché il suo personaggio è associato ad un racconto importante sul medioevo come rovescio della modernità, quello fa dell’incontro di Canossa il luogo della separazione tra stato e chiesa. Una grande narrazione, affermatasi dall’Ottocento, ma inverificabile e troppo riduttiva. Il fatto che poi si tratti di una donna a rivestire un ruolo in quella situazione così rilevante per la mitologia chiaroscurata del moderno, aumenta ancora l’effetto di risonanza di cui gode la sua figura nella cultura  europea e americana.
Detto questo, l’osservazione sottesa alla domanda va forse declinata in un senso diverso, come una questione di percezione. In altri paesi e – penso soprattutto a quelli di lingua inglese – la figura di Matilde ha più rilevanza in quanto donna di potere e la sua immagine è meno condizionata dalla patina ‘cattolica’ che c’è in Italia, dove invece è presentata soprattutto come ‘paladina’ del papato. Matilde è nel nostro paese meno ‘principessa indipendente’ che ‘figlia devota di Pietro’. Questa è una considerazione, con cento distinguo del caso, che riguarda la coscienza storica diffusa e non gli storici che ormai giudicano da tempo piuttosto autonomamente la figura della contessa. Ma la ricezione della loro visione è meno forte del radicamento delle immagini mitiche.

4) Tra i numerosi aspetti attraverso cui viene indagata la figura di Matilde, e i ruoli che nel corso della sua vita ella ha vissuto, ce n’è uno in particolare che secondo lei la rende più attuale o più interessante agli occhi di una donna di oggi?

Prima di cercare di rispondere nel merito, vorrei accennare al fatto che l’aspetto attualizzante che ho considerato presente nella biografia è un po’ più generale. Matilde costituisce un caso storico interessante per la sua posizione e la sua traiettoria, attraverso il quale si può rinviare alla questione della costruzione dell’identità e alla funzione dei ruoli di genere: e questo vale tanto per le ‘donne’ quanto per gli ‘uomini’, cioè per tutte le persone. Anche se si tratta di un caso fuori dal comune, la contessa è sotto questo punto di vista un esempio efficace per diffondere la visione gender che incontra invece tante resistenze in un paese profondamente conservatore come l’Italia.
Se poi devo considerare cosa potrebbe essere più interessante per le donne contemporanee, penso soprattutto alle tracce di alcune decisioni che Matilde ha preso come moglie e come donna di potere (tralascio invece la questione del ruolo di mediazione, che pure potrebbe avere risvolti attualizzanti). Premetto nuovamente che ne sappiamo pochissimo, soprattutto sul piano esistenziale. Tuttavia quando analizziamo le scarse fonti sui matrimoni e sulle successive separazioni di Matilde, queste ci lasciano supporre che la contessa prese in prima persona le decisioni di allontanarsi o di dividersi dai mariti, nonostante le pressioni di vario tipo, etico (una donna non lo poteva fare) e politico (in quel momento di tensione poteva essere non opportuno il farlo).
Si trattava di un orientamento al valore nel prendere le decisioni? Forse. In un altro contesto Donizone sembra descrivere così la decisione presa da Matilde nella celebre assemblea di Carpineti (1092). Di fronte alle pressioni dei suoi vassalli (e anche del marito Guelfo V, pur non menzionato nella fonte) per fare la pace con Enrico IV e di fronte al parere dei suoi consiglieri ecclesiastici e religiosi, che potevano legittimare un’eventuale scelta di opportunità da parte di Matilde a favore della pace, definendola ‘giusta’, la contessa prese invece la decisione di seguire l’unica voce discorde, quella profetica e carismatica dell’eremita Giovanni, che le disse di continuare a combattere. L’episodio raccontato da Donizone si può far interagire con la testimonianza di una lettera di Gregorio VII nella quale si descrive un’analoga situazione di Matilde di dieci anni precedente all’assemblea di Carpineti. Nella lettera a due dignitari ecclesiastici di area tedesca si accenna al fatto che i vassalli considerino Matilde una pazza: una pazza nel resistere militarmente al re, perché correva il rischio di perdere tutto.
Ecco, attualizzando, si potrebbe dire che Matilde era una donna determinata a non scendere a compromessi per difendere certi valori. Ma questa idea non è veramente suffragata: purtroppo non si può escludere l’ipotesi opposta che possa essere stata una pazza fanatica. In realtà non lo sapremo mai; forse fu entrambe e forse fu di volta in volta diversa: come noi stessi, attraversata da tensioni e contraddizioni nel cercare di prendere le decisioni nel corso della sua vita nello spazio di azione che gli era consentito, magari cercando di ampliarlo – questo sì –, come probabilmente alla fine fece.

I libri di Eugenio Riversi

domenica 12 aprile 2015

Matilde tra Modena e Quarantoli

C’è tanta emozione, ma anche tanta rabbia e tanta amarezza nel viaggio attraverso i luoghi legati a Matilde di Canossa che oggi mi ha portato da Modena a Nonantola, da Nonantola a Sorbara, da Sorbara a Quarantoli, luoghi ancora pesantemente danneggiati dal sisma terribile che ha colpito la Bassa Modenese nel maggio del 2012. Non se ne parla più sui giornali e forse, come spesso capita, si pensa che nel frattempo tutto sia stato sistemato, ma non è così.

Stamane, durante il mio percorso alla riscoperta dei luoghi della Grancontessa, ho potuto constatare che ancora non è stato fatto abbastanza e ancora tanto deve essere fatto per rimediare ai danni, per togliere i puntelli di metallo dalle facciate e dalle absidi crollate, per eliminare le barre di ferro che abbracciano e tengono assieme torri e colonne, per dare di nuovo un volto alle chiese e agli edifici, per fare di nuovo respirare le case e i monumenti della nostra memoria e per riportarli alla rinascita dopo quasi tre anni di sospensione.

Il viaggio si apre a Modena, e non poteva che essere così. A causa della lotta tra papato e impero e del suo ruolo di mediatrice, Matilde ebbe un rapporto tormentato con questa città, ma promosse e aiutò in prima persona i cittadini nella costruzione del Duomo, dal 1997 inserito dall’Unesco nella lista dei siti patrimonio dell’umanità. La Grancontessa si fece promotrice della ricerca delle maestranze ed ebbe un peso anche nella traslazione e nella verifica dei resti del corpo di San Geminiano dalla vecchia chiesa, ormai diroccata, alla nuova in costruzione, come raccontano le cronache della Relatio de innovatione ecclesia sancti geminiani. La prima pietra del duomo fu posata nel 1099, la traslazione di Geminiano avvenne nel 1107, e in entrambe le occasioni Matilde fu presente, segno del prestigio che nonostante gli attriti e i nuovi fermenti della città godeva ancora tra i modenesi.

Dopo Modena, Nonantola, sede dell’antichissima e potentissima abbazia che si inscrisse nella lotta per le investiture tra Gregorio VII  ed Enrico IV.  Nonantola fu dapprima favorevole al papa e successivamente sostenne l'imperatore, subendo l’assedio delle truppe della contessa Matilde. Diversi documenti presenti  nell'Archivio Abbaziale testimoniano che fra le due parti dovette avvenire una riconciliazione, perché sono atti di donazioni che la contessa fece alla Badia.  Da sempre fucina di manoscritti e talenti, l'abbazia nel 1111 vide il monaco Placido scrivere il Liber de honore Ecclesiae con cui vennero gettate le basi per il Concordato di Worms del 1122, con protagonisti l’imperatore Enrico V e papa Callisto II, che pose fine alla lotta tra i due poteri.

Da Nonantola ci si sposta a Sorbara, luogo dove la Grancontessa si prese una clamorosa ed eroica vittoria sulle truppe imperiali guidate dal fedelissimo di Enrico IV, Oberto d’Este. Oggi a ricordo di quella battaglia rimane la pieve di impianto romanico dedicata a Sant'Agata e fatta costruire da Matilde, che a causa delle rovinose piene del Secchia è stata restaurata diverse volte nel corso dei secoli, e che al momento risulta inaccessibile a causa del sisma del 2012.

Da Sorbara, infine, passando attraverso Mirandola, si giunge a Quarantoli, sede della pieve romanica di Santa Maria della Neve, completamente rifatta nel XII secolo su iniziativa di Matilde di Canossa, all'epoca dell'infeudazione a Ugo di Manfredo. Possesso dei Canossa, che  l'avevano ottenuto in enfiteusi dall'abbazia di Nonantola, il territorio mirandolese nel 1115 fu affidato dalla Grancontessa al suo vassallo Ugo, figlio di quel Manfredo che viene considerato il capostipite del gruppo parentale detto dei "Figli di Manfredo". Questo consorzio famigliare, distinto nei rami dei Pio, dei Pico, dei Papazzoni, dei Pedoca, dei Padella e dei Del Fante, faceva parte della piccola aristocrazia terriera di estrazione longobarda che si era rafforzata attraverso il servizio armato prestato alle potenti casate dell'area padana e poi ai Comuni. Al momento la Pieve è inagibile causa terremoto.

Per approfondimenti, qualche link:
Duomo di Modena
Abbazia di Nonantola
Unione del Sorbara
Comune di Mirandola
Pieve di Quarantoli

Il viaggio continua. Tutte le immagini che correlano l'articolo sono di mia proprietà, ne è pertanto vietato l'utilizzo. Per visionare le tappe complete del mio breve viaggio tra Modena e Quarantoli, cliccare qui: Elisella's Instagram Profile

giovedì 9 aprile 2015

Il dono di Bonifacio

Uscito nell'antologia Racconti balsamici della Damster nel 2008, questo mio racconto è dedicato a Bonifacio di Canossa, padre di Matilde. Balsamico. Elemento sensuale in una folle passione. Movente di un efferato delitto. Arma per uno sporco ricatto. Pegno di una fedele amicizia. Pretesto per una guerra tra fazioni. Tutto questo e tanto altro può essere l'Aceto, specie se Balsamico, specie se quello tradizionale di Modena. Un elemento gastronomico che si trasforma in elemento narrativo, raccontato in diciannove modi diversi in altrettante storie appassionanti. La nebbia si confonde col passato, il mistero con il gusto di raccontare, e l'aceto si tinge del rosso del desiderio e del sangue, del giallo dell'omicidio e della gelosia, attirando e trasportando il lettore in una dimensione dove il profumo e il sapore  creano un'atmosfera unica, avvolgente e.... balsamica.


Il dono di Bonifacio

di Eliselle

Nella sala delle adunanze Enrico III, imperatore del Sacro Romano Impero, attendeva da ore l’arrivo del duca Bonifacio, signore di Canossa e di Toscana, il più potente di tutti i signori del regno che gli avevano giurato fedeltà. Assiso sul trono, circondato dal corpo di guardia reale, Enrico tradiva nonostante tutto una certa nervosa impazienza.
Era passato troppo poco tempo da quando si era scontrato con l’orgogliosa ostinazione di Bonifacio, e ne era trascorso ancora meno da quando aveva tentato di catturarlo la prima volta, attirandolo nel suo palazzo con la scusa di un consiglio privato, per toglierlo definitivamente di mezzo. Ma in quell’occasione aveva fallito miseramente a causa dell’astuzia e della potenza militare dell’erede dei Canossa.
Il fatto era accaduto poco dopo aver subito il rifiuto di Bonifacio di far attraversare i territori sotto il suo controllo e accompagnare fino a Roma Damaso II, il nuovo papa legittimo, scelto dall’imperatore in persona. Un’azione irragionevole, un comportamento deplorevole, assolutamente indegno di un vassallo. Ma questa non era stata l’unica sua mancanza. Bonifacio aveva fatto molto peggio. Aveva osato appoggiare l’altro papa, Benedetto IX, non gradito all’impero, e si era dimostrato recalcitrante a compiere il suo dovere di uomo fedele. E sebbene alla fine avesse capitolato, il suo affronto aveva infastidito il sovrano, che riteneva ormai Bonifacio più influente del dovuto. E pericoloso.
Era eccessivamente sicuro di sé, quel Bonifacio. Aveva dalla sua il controllo totale su un territorio dall’enorme importanza strategica, un esercito forte e ben organizzato, appoggi politici importanti e un legame d’amicizia molto stretto col papato. Questa situazione lo faceva sentire in diritto di compiere scelte che scavalcavano l’autorità imperiale, e questo non era un bene, a Enrico non piaceva. Doveva fermarlo. La cosa andava assolutamente fatta.
“Quanto manca, Gismund?”
“Non molto, mio signore. Le sentinelle dicono che è in arrivo” rispose rapido il consigliere.
Mentre attendeva, Enrico ripensò a come Bonifacio era sfuggito all’agguato che gli aveva preparato con tanta cura. La rabbia ribolliva ancora nel suo animo ogni volta che gli tornava alla mente il volto soddisfatto del suo vassallo e quel sorriso appena accennato, che significava più di mille parole.
Bonifacio aveva capito, era chiaro. Era stato attirato con pochi uomini nella sala del trono per essere isolato dagli altri e catturato con più facilità, ma non aveva dato soddisfazione al sovrano. Si era inchinato al cospetto di Enrico dopo che la sua corte fedele, per non lasciarlo solo, aveva abbattuto tutte le porte del castello del sovrano nonostante fossero state sbarrate dalle guardie imperiali, e lui non aveva potuto fare nulla, se non dirgli: “Che vedo? Mi meraviglio di te, Bonifacio!” fingendo sorpresa e rammarico. Ma covando dentro di sé il fuoco di un drago.
Non aveva potuto imprigionarlo, e aveva dovuto simulare amicizia con parole pacate e gesti imperturbabili. Ma non aveva rinunciato alla sua vendetta. Se non era riuscito la prima volta, ci sarebbe riuscito la seconda. E l’oscurità gli era apparsa l’alleata migliore per portare finalmente a compimento il suo disegno.
Aveva fatto sapere al duca tramite un ambasciatore che avrebbe gradito se egli avesse vegliato un po’ su di lui, nottetempo. E come sempre, Bonifacio aveva risposto alla richiesta, perché non voleva mancare all’ossequio dovuto al suo sovrano. Il senso del dovere e la fedeltà sarebbero stati la sua disfatta. Questa volta non poteva fallire, la notte gli avrebbe dato l’occasione giusta. Un assalto nella foresta che il duca doveva attraversare per arrivare al palazzo del re era un piano che non poteva non avere successo. Enrico sorrise impercettibilmente, e distendendo le gambe, si rilassò.
Fu la voce di Gismund a interrompere d’improvviso la sua meditazione.
“Mio signore, le sentinelle sono giunte di corsa, i servi gridano! Qualcosa di terribile e straordinario si sta avvicinando al castello!”
L’agitazione del consigliere riscosse Enrico che irrigidì la schiena e si spinse in avanti.
“Che cosa intendi, che sta succedendo là fuori?”
Il sovrano si alzò dal trono e si precipitò alla grande finestra che dava sulle mura interne e lasciò che lo sguardo si perdesse al di fuori, lungo la strada che portava verso sud.
Quello che vide lo lasciò senza fiato.
Una lunga colonna splendente di fulgida luce, un serpente di fuoco si muoveva lento e attraversava la foresta facendosi sempre più vicino all’enorme porta d’ingresso, solida e sicura, sbarrata da solide travi di legno, chiusa da serrature in ferro e sorretta da cardini in pietra. Non c’erano parole per descrivere le emozioni che attraversavano il cuore di Enrico, sopraffatto da quello spettacolo incredibile: era una selva di fiamme, sembrava che lo stesso terreno stesse bruciando.
Quando la colonna si fermò sotto le mura, il consigliere raggiunse Enrico e si inchinò.
“Mio signore, il duca Bonifacio, signore di Canossa, è qui per servirvi.”
E l’imperatore capì.
Si fece portare il mantello pesante, ordinò a Gismund di accompagnarlo portando una minima scorta e fece una cosa che non aveva mai fatto prima di allora: decise di scendere fino alla grande porta principale, per accogliere di persona il suo vassallo.
Quando i battenti si aprirono, svelarono agli occhi del sovrano quello che da lontano sembrava un mostro infuocato pronto a divorare il suo palazzo: Bonifacio gli stava davanti a cavallo e dietro di lui lo seguiva il suo esercito. Egli aveva fatto preparare molti piccoli ceri, ciascuno del peso di una libbra di cera, e li aveva affidati ai suoi soldati, che li avevano piantati accesi sulla punta delle loro lance. Ora lui appariva in mezzo a loro avvolto da un mirabile splendore, come un’apparizione divina, come l’incarnazione di San Michele, l’invincibile santo guerriero.
Il duca scese da cavallo e si inchinò ai piedi di Enrico, abbassando la testa e rendendogli omaggio, di nuovo come se nulla avesse sospettato, e il sovrano, rendendosi conto che non poteva nulla su di lui, lo ringraziò vivamente e gli disse di tornare a Canossa.
Bonifacio, inaspettatamente, intervenne.
“Mio signore, non sono venuto sin qui da voi invano.”
“No, affatto. La vostra fedeltà è stata ancora una volta confermata.”
Enrico sorrise.
“Permettetemi allora di fare di più, per voi” continuò Bonifacio.
“Tutto ciò che vi ho chiesto, lo avete esaudito.”
Il sovrano voleva mantenere una certa fermezza. Aveva già fallito due volte, non voleva che accadesse una terza volta, in più davanti alla sua gente. Quella sarebbe stata una sconfitta morale, il ché la rendeva un male persino peggiore. Doveva almeno dimostrare che poteva far andare e venire a suo piacimento gli uomini che lo servivano, e non aveva alcuna intenzione di ospitare Bonifacio nel suo palazzo, quella notte. Avrebbe significato riconoscere la sua potenza.
“Ho affrontato un lungo viaggio” iniziò Bonifacio, “ma ho portato con me una cosa che vorrei donarvi, a riprova della mia fedeltà.”
Enrico si incuriosì alle parole del duca. Era sempre stato un uomo molto astuto, il Canossa, così come i suoi antenati, doveva forse aspettarsi un tranello? Dopo un attimo di esitazione, decise di correre il rischio.
“Che cos’hai portato, Bonifacio?”
Il suo vassallo si alzò e fece un cenno a uno dei suoi uomini, che ficcò la lancia a terra e scomparve nelle retrovie. Dopo qualche istante, tornò guidando due buoi aggiogati a un carro che trasportava qualcosa, coperto da un telo scuro. I buoi si fermarono di lato al re e alla sua scorta, per permettere al duca di togliere il telo e mostrare il contenuto del carro.
Il sovrano rimase meravigliato davanti al botticello tutto in argento, illuminato dalle luci delle candele, che a una prima occhiata doveva valere una fortuna. Quanto denaro possedeva, il suo vassallo?
“Ecco a voi, mio signore. Questo è quell’aceto tanto conosciuto e celebrato che si fa alla rocca di Canossa. È un condimento dal sapore invitante, lo potrete accompagnare con la selvaggina e col formaggio, renderà più gustosa la carne e lo potrete usare anche come balsamo benefico, per la vostra salute. Vi prego di accettare questo omaggio, come pegno del mio onore. Perché possiate comprendere appieno la mia amicizia e devozione.”
Bonifacio accompagnò le sue ultime parole con uno sguardo eloquente, che si ficcò negli occhi del sovrano e lasciò intendere tanto altro. L’imperatore non disse nulla, limitandosi ad annuire.
Enrico fu felice ed ebbe caro questo magnifico dono di Bonifacio, perché tanto aveva desiderato conoscere la squisitezza di quel liquido scuro di cui si favoleggiava ma che non aveva mai assaggiato. E così, accolse l’aceto balsamico di buon grado, accettando serenamente l’amicizia del signore delle terre di Reggio, Modena e Toscana. Lo avrebbe lasciato in pace, decise. Almeno fino a quando non si sarebbe presentata un’occasione più propizia.

lunedì 6 aprile 2015

Il labirinto del cuore di Matilde


Un incontro particolarmente interessante quello di stamane con Selma Sevenhuijsen, professoressa, ricercatrice e autrice de Il sorriso della sirena (Effigi Edizioni, 2014), che a Canossa mi ha mostrato il labirinto del cuore di Matilde.

A luglio uscirà su Amazon il suo diario di viaggio dedicato ai luoghi di Matilde di Canossa, intitolato La Regina del Vaticano. Questo blog ospiterà a breve un’intervista dedicata al suo libro uscito nel 2014 per Effigi, dove si fondono cultura, storia, spiritualità e mistero, in attesa della versione in italiano del libro sulla Grancontessa.

sabato 4 aprile 2015

Sulle tracce di Matilde di Canossa lungo l'antica Bibulca

C’è un viaggio di ricerca e un viaggio di rinnovamento. Il primo è appassionante ma spesso faticoso, ricco di prove e di scoperte, il secondo è un ringraziamento, un’emozione permeata da un grande senso di gratitudine.

Ritrovare i luoghi di Matilde dopo aver scritto un romanzo costato dieci anni di ricerche cambia prospettiva, è come se il fardello che hai portato per lungo tempo sulle spalle magicamente svanisse e ti lasciasse libera di goderti quei momenti con la sola compagnia della leggerezza. È con questo stato d’animo che ho affrontato un breve ma intenso viaggio a tappe, che mi ha spinto a percorrere un lungo tratto della via Bibulca, l’antica strada che attraverso la Selva Romanesca nei domini dei Canossa tagliava l’appennino tosco-emiliano, alla ricerca dei segni e delle opere della Grancontessa. Questa via, larga come una mulattiera del giorno d’oggi, ma notevole per l’epoca, già nominata nel diploma carolingio del 781 col nome di via nova, iniziava alla confluenza del fiume Dragone nel fiume Dolo e si portava a Rubbiano, La Verna, Serradimigni, Tolara, Frassinoro, Pietravolta, Monte Roncadello, S. Geminiano, Passo delle Radici, S. Pellegrino quindi in Garfagnana.

La prima tappa è la Pieve di Rubbiano dedicata a Santa Maria Assunta, uno degli edifici più importanti dell’architettura romanica modenese. Fondata nel corso del VII secolo e potentissima nel X secolo, aveva annesso un ospizio per pellegrini e viandanti. Quando venne fondata l’abbazia di Frassinoro da Beatrice di Canossa nel 1071, fu un duro colpo per il suo prestigio, con conseguenti controversie e accordi fra le due istituzioni religiose grazie all’intervento di papa Callisto II.

La seconda tappa è Frassinoro, alla chiesa di Santa Maria Assunta e San Claudio. Frassinoro fu scelta da Beatrice perché a uno snodo fondamentale dell’intreccio delle vie dei pellegrinaggi e degli imperatori, è lì fu costruita l’abbazia dedicata alla figlia di Matilde, morta pochi mesi dopo il parto, che fu dotata delle reliquie del martire Claudio. Il tesoro e le suppellettili dell’antica abbazia, di cui rimane solo la chiesa, sono ora al Museo Civico di Modena.

La terza tappa è la Madonna di Pietravolta, posta sulle diocesi di confine tra Modena e Reggio Emilia, che pur essendo attestata nei documenti solo a partire dal 1222 pare fosse di origine molto più antica. L’edificio si trova nell’antico territorio di Roncosigifredo, insediamento questo che trae il nome da Sigifredo, capostipite dei Canossa. La pieve custodisce un quadro della Beata Vergine della Neve ritenuto miracoloso. Sulla facciata di gusto neoromanico, ricostruita nel 1948, un omaggio a Matilde e a Gregorio, che appaiono insieme in una formella in pietra serena posta in alto a destra rispetto all’archivolto del portale.

Ho attraversato quindi la Selva Romanesca, già citata da Tito Livio, il nome con cui veniva chiamata la foresta che ricopriva l’attuale Valle del Dragone. Conosciuta anche come Selva dell’Alpe o Selva Ombrosa, aveva un’estensione di circa 5500 ettari (pari a 19390 biolche modenesi), era una preziosissima fonte di reddito per l’abbazia di Frassinoro per il legname ma era anche temuta per i briganti che ivi si nascondevano, attratti dal passaggio di pellegrini e merci sulla Bibulca. Qui ancora a inizio aprile si vede la neve.

La quarta tappa è San Pellegrino in Alpe, col Santuario dei Santi Pellegrino e Bianco, le cui reliquie sono conservate nella chiesa sotto un tempietto di marmo, opera dello scultore lucchese Matteo Civitali. San Pellegrino, su cui vertono numerose leggende, è raffigurato con scarsella e bordone, i simboli tipici del pellegrino medievale. Sull’esterno, guardando dal punto panoramico chiamato “molo”, si può ammirare lo spettacolo unico delle Alpi Apuane. All’estremità del molo v’è una croce costruita con due tronchi di faggio che ogni anno vengono sostituiti il primo di agosto, in occasione della festa del patrono. La tradizione vuole che la croce sia posta proprio nel luogo dove morì il santo, dentro un albero cavo sulla cui corteccia scrisse la sua vita.

La quinta tappa, dopo aver attraversato Pieve Fosciana, dove nel 1105 è attestata la presenza di Matilde grazie a un placito, è Castiglione Garfagnana, antichissima e fiera roccaforte che ha mantenuto intatta la sua struttura medievale. Nell’XI secolo ottenne dalla Grancontessa degli speciali diritti e privilegi, che la posero al pari di Lucca e degli altri Comuni liberi della Toscana.

La sesta e ultima tappa è il celebre Ponte della Maddalena, detto Ponte del Diavolo, fortemente voluto da Matilde, che attraversa il Serchio nei pressi di Borgo a Mozzano, in provincia di Lucca. Un’opera stupefacente di ingegneria medievale che lascia senza fiato, e attorno al quale sono nate numerose leggende, una delle quali è stata raccontata anche nel romanzo storico e novellario Francigena. Poco lontano dal Ponte della Maddalena vi è infatti Bagni di Lucca, una delle tappe dei pellegrini che percorrevano e percorrono ancora oggi la via Francigena, una delle arterie principali che affondano le radici nella nostra memoria.


Per approfondimenti, qualche link:
Ars Romanica
Itinerari Matildici
Vie Storiche
Sentieri della Luce
Travel Emilia Romagna

Il viaggio continua, la prossima volta nella Bassa. Tutte le immagini che correlano l'articolo sono di mia proprietà, ne è pertanto vietato l'utilizzo. Per visionare le tappe complete del mio viaggio sulla Bibulca, cliccare qui: Elisella's Instagram Profile

giovedì 2 aprile 2015

Buona Pasqua con Matilde

Da ieri, primo aprile, al Castello di Canossa è in vigore l'orario estivo delle visite fino al 30 settembre. A breve una nuova rubrica su questo blog, dedicata alle pubblicazioni sulla Grancontessa e soprattutto agli autori, con interviste e interventi a scrittori, storici, saggisti, ricercatori.

Ricordo che "Il romanzo di Matilda" è in uscita a luglio, mese dell'anniversario della morte di Matilde di Canossa, e ha già diverse presentazioni in programma che verranno annunciate su questo blog. Dall'autrice, un sincero augurio di buona Pasqua.

Al convegno su Matilde di Canossa